Fu riordinando le idee nella sua testa che di fronte
all’ennesima porta chiusa, si rese conto che dall’ultimo fugace sguardo non
aveva più notizie di Marika. Istintivamente portò la mano verso la coscia
all’altezza della tasca, facendo il consueto gesto di tirare fuori il cellulare
per effettuare una chiamata, la frustrazione crebbe quando il leggero lenzuolo
che lo avvolgeva gli impediva di infilare la mano in tasca e rimarcava la sua
condizione di sorvegliato. Stizzito si alzò dal letto ormai i giorni dei
macchinari e delle flebo erano finiti, un contatore geiger produceva l’unico
suono costante della stanza, ormai assimilato al silenzio nella testa di Carlo,
non aveva variazioni di tono da un po’, segno che anche se non fossero scese,
quantomeno le radiazioni emesse dal suo corpo erano costanti. La stanza era
scarna, un finestra affacciava su un parcheggio interno chiuso a quadrilatero
dalle altre ali dell’edificio, oltre il cielo e le facciate del palazzo che si
ripetevano a specchio, le macchine parcheggiate di sotto erano l’unico elemento
che sembrava diverso. Basandosi sul ciclo giorno notte erano trascorsi almeno
due giorni pieni e questo terzo giorno era prossimo alla sua metà del ciclo di
luce, il caldo sole dell’esterno si irraggiava nella stanza lasciando solo
percepire la sua intensità avvertita come un lieve tepore superficiale
contrastato dalla ventilazione dell’edificio. Come se non se ne fosse mai reso
conto, lo sbiadito riflesso nella finestra gli ricordò di avere un corpo e che
erano giorni probabilmente che non si prendeva cura di sé stesso. Anzi, oggi
era il primo giorno che portava i suoi pensieri a spingerlo in piedi sul letto
in maniera volontaria. Adesso aveva abbandonato l’incertezza delle supposizioni
per acquisire quanto più poteva dall’ambiente circostante. Nella sua condizione
sembrava che stesse ragionando come un elaboratore. Il tentare di sciogliere la
matassa degli avvenimenti lo aveva portato a un livello di astrazione tale da
abbracciare tutte le ipotesi possibili, ma anche tale da ridurre azioni come
andare in bagno o mangiare qualcosa di subordinato, non realmente necessario.
Il pensiero di Marika era stato l’interruttore che aveva riacceso le sue funzioni “normali” e piano piano stava percependo tutti i segnali che gli provenivano dal suo corpo.
Dall’istante in cui aveva riacquisito la cognizione di se, il lieve dolore agli occhidel bagliore del sole lo fece indietreggiare dalla finestra come una creatura sporca, del quale il sole metteva in risalto ogni impurità, una creatura della notte che trova sollievo nell’inerzia dell’ombra. La porta del bagno della sua camera era più di un miraggio. Camminare fino a quella vicina meta metteva alla prova ogni suo istinto e la sua forza di volontà. Il primo passo cosciente fu una fitta al tallone che quasi lo fece cadere. I muscoli della coscia si tesero nella reazione naturale per contrastare la caduta dovuta all’assenza di forze indotta dal dolore.
Arrancando in questa maniera pietosa arrivò al letto al centro della stanza. Li prese a massaggiarsi i piedi e le gambe cercando di riattivare la circolazione. La sensazione era quella di camminare per la prima volta in un corpo nuovo, mano a mano che i l suo io cosciente prendeva confidenza con questa nuova condizione riusciva a percepire il sangue che scorre, il contatto dell’epidermide che frizionava tra le gambe e il palmo della mano, in analogia come se avessero aggiornato i driver del suo corpo e adesso le periferiche rispondevano in maniera diversa e lui coscientemente se ne accorgeva e doveva riprendere confidenza con se stesso.
Forse nei suoi primi due giorni di convalescenza il suo io cosciente era impegnato a rispondere alle domande sui fatti irreali degli ultimi giorni, tutto preso alla ricerca di uno schema o di una connessione, mentre la sua parte antica e profonda provvedeva agli istinti di sopravvivenza, facendo funzionare quello che aveva e ignorando i piccoli fastidi di adattamento alla nuova condizione. Così adesso si rendeva conto che come per guidare un auto, adesso lui doveva capire come fare. Le basi erano le stesse; un piede davanti l’altro, mantieni l’equilibrio, decidi la tua strada saggiamente, attento alle asperità del terreno, sempre di più si rendeva conto che era aumentata la sua percezione, di se stesso e in una certa misura pure dell’ambiente circostante. Tutte queste considerazioni furono spazzate via dall’idea di voler trovare Marika e di accertarsi che non le fosse successo nulla.
Qualche stanza più in là, in una control room appositamente creata per l’occasione due occhi osservavano i movimenti di Carlo da una telecamera a circuito chiuso. Le istruzioni erano state chiare: avvisare ad ogni cambiamento. Negli ultimi due giorni, anche nel suo turno di lavoro alla supervisione il tipo si era alzato per andare in bagno e per sbocconcellare dal carrello che gli veniva lasciato in camera con del cibo iperproteico in razioni da militare. Era chiaro che i contatti fino alla fine dei test erano altamente sconsigliati e ridotti al minimo indispensabile. Aveva sempre considerato strano che nonostante l’apparente stato di veglia il soggetto non reagisse neanche quando entrava qualcuno in stanza o quando i dottori prendevano i suoi parametri fisiologici. Lo aveva bollato come catatonico, già era un miracolo che fosse sopravvissuto a un irraggiamento massiccio di radiazioni e poi l’esplosione. L’interesse medico era comprensibile ma chi sa fino a che punto giustificato. Dal canto suo vederlo alzarsi e procedere sicuro verso la finestra e poi vederlo incespicare fino al letto per massaggiarsi i piedi e le gambe costituiva senz’altro un’anomalia.
Senza perdersi in altre considerazioni sollevò la cornetta della postazione di comunicazione, premette il pulsante indicato per le situazioni di questo tipo e attese mentre un trillo inframmezzato da qualche scarica elettrostatica intratteneva il suo orecchio. Tutto si fermo riducendosi al fruscio della cornetta del ricevente che veniva alzata dall’apparecchio, dall’altro capo la voce stanca del professor Stainer senza attendere che l’interlocutore parlasse vomito bruscamente un “non faccia nulla! Sto arrivando!”
In tutta onesta Janković pensava di trovare nella base ZYON solo un piccolo numero di ricercatori, intenti a studiare i risultati dei test di apparecchiature all’avanguardia. Niente di più di un essere umano normale non avvezzo a gestire conflitti a fuoco se necessario e a una piccola presenza di forze di sicurezza, in fondo la sicurezza dell’installazione era per lo più dovuta al suo alto grado di mimetizzazione all’interno del tessuto urbano e alla bravura nel nascondere le tracce a ogni curioso che fosse andato a cercar guai negli archivi del comune. La squadra di Radoslav aveva rimodellato il piano per neutralizzare il gruppetto di boyscout della NEW GENETICS, l’intervento dei due della sicurezza attrezzati con apparecchi sofisticati almeno quanto i loro e l’improvviso precipitare della situazione dovuto al collasso del reattore, aveva reso la missione un mezzo fiasco. Fortuna che l’annichilimento di un reattore al cobalto lasciava meno tracce di una loro squadra di pulizia e in fondo tranne la conoscenza il dispositivo che cercavano era nelle loro mani.
Nella sua personalissima e privata zona alloggio della base Nebula, nella completa solitudine del salone arricchito di marmo verde e lampadari di cristallo Goran Janković comincio a formulare una domanda ad alta voce con lo sguardo verso un monitor a parete apparentemente spento:
<<Andromeda a che punto è l’analisi del manufatto?>>
Il monito si illuminò mantenendo una colorazione sul nero, e manifestando al centro dello schermo una specie di volto che sembrava formato da scie fumose, quella era l’interfaccia utente del computer della base, implementava comandi vocali e tutta una serie di sensori per interpretare l’interlocutore, spesso però il client che animava le interfacce grafiche non possedeva molta capacità di gestire un volto ad alta risoluzione mentre scambiava una mole di dati gigantesca con il server, la vera testa di Andromeda.
Gli altoparlanti emisero il suono di una voce di donna, modulata in maniera tale da dare l’illusione che il suono provenisse dal monitor ma udibile da tutta la stanza, questo per molte persone ancora rientrava nel campo della fantascienza, ma Andromeda stava lavorando al ritmo serrato di un equip di ingegneri e di fisici, eseguendo scansioni e prove sull’oggetto, con la sicurezza di un capo dipartimento dell’università prese a snocciolare una serie di dati. Goran aveva un’idea generale di quello che stavano facendo, lui era un visionario che aveva impostato la sua modesta attività nel campo della ricerca hi-tech per fini non proprio puliti, la testa era il professor Edwin Chandra studioso senza scrupoli proveniente dall’india. Finché Janković avesse assecondato la sua fame di scienza lui gli avrebbe confezionato gioiellini come la tuta invisibile o il cloud che gestiva Andromeda. In quel momento le informazioni che Andromeda gli stava fornendo con voce soave e fredda competenza sarebbero state miele per Chandra ma non per lui
<<Piccola lo sai che sono un tipo pratico, fammi capire a che serve!>> Disse in tono perentorio Janković
<<Posso fornire una descrizione migliore con i monitor HD del main frame del laboratorio, puoi raggiungermi li…>> rispose la fumosa voce dolce dalle casse diffuse nella stanza. Janković si diresse alla porta in fondo al salone e poggio la sua mano su un area del muro che era identica a tutto il resto della parete, a parte per il lieve alone che derivava dagli innumerevoli contatti della mano. La porta emise un beep, segno che il riconoscimento biometrico era avvenuto correttamente, dopo qualche secondo senza nessun rumore apparente la porta si aprì automaticamente rivelando l’interno di una cabina tipo quelle di un ascensore, <<Al laboratorio allora!>> esclamò Janković prendendo posto nella cabina.
Arrivato nel laboratorio il dottor Chandra era impegnato nella parte chiusa ed ermetizzata per gli esperimenti con componenti pericolosi, sul monitor al centro della stanza campeggiava la figura di una donna bellissima, quanto di più vicino a una modella da copertina, il volto aveva un nasino piccolo incorniciato da due occhi dal taglio vagamente orientale di un verde penetrante, le labbra rosse di rossetto vicino al fluorescente strappavano subito l’attenzione dagli occhi, capelli neri raccolti in una coda che spariva dietro le spalle, fisico asciutto dalla postura eretta e composta, con dei fianchi generosi e il seno che premeva sul camice bianco senza essere troppo volgare, la creazione virtuale di quell’entità aveva richiesto a Janković ore di lavoro insieme a quel giovane molto dotato in modellazione 3d e molto in cerca di soldi, aveva anche lui gusto per le belle donne (se avesse lasciato l’interfaccia a Chandra avrebbe avuto la sua copia riprodotta in alta definizione), nel giro di un mese di rendering e modellazione prendeva sempre più corpo la figura che adesso vedeva sullo schermo, generando una gamma inverosimile di versioni grafiche della donna che sarebbe stato il corpo di Andromeda il suo supercomputer. Destino più triste tocco al giovane grafico, attualmente figura nella lista dei dispersi della sua contea, realmente vive in qualche meandro della base Nebula in buona salute e costretto a lavorare al miglioramento dell’interfaccia.
<<Ah! Andromeda, se fossi in carne ed ossa>> disse sospirante Janković
<<Non sarei così efficiente…>> ribatte Andromeda, Janković pensò che la simulazione si stava arricchendo di veri tratti femminili del comportamento, a volte si trovava a intessere discussioni con lei con la sensazione che stesse cercando di circuirlo e attirarlo a se, ma Andromeda era molto di più di quella simulazione. Mentre intratteneva Janković con la sua formosa simulazione stava ausiliando Chandra nel compimento degli esperimenti, dei quali già possedeva un primo risultato, il quale stava per essere esemplificato agli occhi di Janković mediante fluide simulazioni 3d e il tocco di una sapiente e quanto mai voluttuosa divulgatrice.
<<Il manufatto risulta essere quello che pensavamo, è un generatore controllato di campo magnetico, accoppiandone un numero sufficiente si ottiene un sistema di generatori che crea un campo di forma circolare utilizzato per il contenimento del flusso piroclastico che si genera quando l’interazione dei gluoni con la materia grezza esce dallo stadio di controllo>> e subito l’intelligenza artificiale prese ad animare la sequenza di parole per rabbonire il capo e per rendere comprensibile il tutto.
Mentre Janković pensava euforico che avevano fatto centro e capiva il perché la NEW GENETICS cercasse questo dispositivo, la porta dell’area di decontaminazione si aprì frusciando con un suono molto poco futuristico, lasciando intravedere in mezzo a una nuvola di vapori l’immagine di un uomo in camice bianco dalla pelle olivastra, capelli neri a formare un casco uniforme intorno alla testa occhi socchiusi e un paio di occhiali grandi a sufficienza da coprire la faccia da destra a sinistra con una vistosa montatura dorata, il tutto condito da un fisico a malapena sufficiente a garantire la deambulazione, faceva così il suo ingresso in scena il professor Chandra.
Il pensiero di Marika era stato l’interruttore che aveva riacceso le sue funzioni “normali” e piano piano stava percependo tutti i segnali che gli provenivano dal suo corpo.
Dall’istante in cui aveva riacquisito la cognizione di se, il lieve dolore agli occhidel bagliore del sole lo fece indietreggiare dalla finestra come una creatura sporca, del quale il sole metteva in risalto ogni impurità, una creatura della notte che trova sollievo nell’inerzia dell’ombra. La porta del bagno della sua camera era più di un miraggio. Camminare fino a quella vicina meta metteva alla prova ogni suo istinto e la sua forza di volontà. Il primo passo cosciente fu una fitta al tallone che quasi lo fece cadere. I muscoli della coscia si tesero nella reazione naturale per contrastare la caduta dovuta all’assenza di forze indotta dal dolore.
Arrancando in questa maniera pietosa arrivò al letto al centro della stanza. Li prese a massaggiarsi i piedi e le gambe cercando di riattivare la circolazione. La sensazione era quella di camminare per la prima volta in un corpo nuovo, mano a mano che i l suo io cosciente prendeva confidenza con questa nuova condizione riusciva a percepire il sangue che scorre, il contatto dell’epidermide che frizionava tra le gambe e il palmo della mano, in analogia come se avessero aggiornato i driver del suo corpo e adesso le periferiche rispondevano in maniera diversa e lui coscientemente se ne accorgeva e doveva riprendere confidenza con se stesso.
Forse nei suoi primi due giorni di convalescenza il suo io cosciente era impegnato a rispondere alle domande sui fatti irreali degli ultimi giorni, tutto preso alla ricerca di uno schema o di una connessione, mentre la sua parte antica e profonda provvedeva agli istinti di sopravvivenza, facendo funzionare quello che aveva e ignorando i piccoli fastidi di adattamento alla nuova condizione. Così adesso si rendeva conto che come per guidare un auto, adesso lui doveva capire come fare. Le basi erano le stesse; un piede davanti l’altro, mantieni l’equilibrio, decidi la tua strada saggiamente, attento alle asperità del terreno, sempre di più si rendeva conto che era aumentata la sua percezione, di se stesso e in una certa misura pure dell’ambiente circostante. Tutte queste considerazioni furono spazzate via dall’idea di voler trovare Marika e di accertarsi che non le fosse successo nulla.
Qualche stanza più in là, in una control room appositamente creata per l’occasione due occhi osservavano i movimenti di Carlo da una telecamera a circuito chiuso. Le istruzioni erano state chiare: avvisare ad ogni cambiamento. Negli ultimi due giorni, anche nel suo turno di lavoro alla supervisione il tipo si era alzato per andare in bagno e per sbocconcellare dal carrello che gli veniva lasciato in camera con del cibo iperproteico in razioni da militare. Era chiaro che i contatti fino alla fine dei test erano altamente sconsigliati e ridotti al minimo indispensabile. Aveva sempre considerato strano che nonostante l’apparente stato di veglia il soggetto non reagisse neanche quando entrava qualcuno in stanza o quando i dottori prendevano i suoi parametri fisiologici. Lo aveva bollato come catatonico, già era un miracolo che fosse sopravvissuto a un irraggiamento massiccio di radiazioni e poi l’esplosione. L’interesse medico era comprensibile ma chi sa fino a che punto giustificato. Dal canto suo vederlo alzarsi e procedere sicuro verso la finestra e poi vederlo incespicare fino al letto per massaggiarsi i piedi e le gambe costituiva senz’altro un’anomalia.
Senza perdersi in altre considerazioni sollevò la cornetta della postazione di comunicazione, premette il pulsante indicato per le situazioni di questo tipo e attese mentre un trillo inframmezzato da qualche scarica elettrostatica intratteneva il suo orecchio. Tutto si fermo riducendosi al fruscio della cornetta del ricevente che veniva alzata dall’apparecchio, dall’altro capo la voce stanca del professor Stainer senza attendere che l’interlocutore parlasse vomito bruscamente un “non faccia nulla! Sto arrivando!”
In tutta onesta Janković pensava di trovare nella base ZYON solo un piccolo numero di ricercatori, intenti a studiare i risultati dei test di apparecchiature all’avanguardia. Niente di più di un essere umano normale non avvezzo a gestire conflitti a fuoco se necessario e a una piccola presenza di forze di sicurezza, in fondo la sicurezza dell’installazione era per lo più dovuta al suo alto grado di mimetizzazione all’interno del tessuto urbano e alla bravura nel nascondere le tracce a ogni curioso che fosse andato a cercar guai negli archivi del comune. La squadra di Radoslav aveva rimodellato il piano per neutralizzare il gruppetto di boyscout della NEW GENETICS, l’intervento dei due della sicurezza attrezzati con apparecchi sofisticati almeno quanto i loro e l’improvviso precipitare della situazione dovuto al collasso del reattore, aveva reso la missione un mezzo fiasco. Fortuna che l’annichilimento di un reattore al cobalto lasciava meno tracce di una loro squadra di pulizia e in fondo tranne la conoscenza il dispositivo che cercavano era nelle loro mani.
Nella sua personalissima e privata zona alloggio della base Nebula, nella completa solitudine del salone arricchito di marmo verde e lampadari di cristallo Goran Janković comincio a formulare una domanda ad alta voce con lo sguardo verso un monitor a parete apparentemente spento:
<<Andromeda a che punto è l’analisi del manufatto?>>
Il monito si illuminò mantenendo una colorazione sul nero, e manifestando al centro dello schermo una specie di volto che sembrava formato da scie fumose, quella era l’interfaccia utente del computer della base, implementava comandi vocali e tutta una serie di sensori per interpretare l’interlocutore, spesso però il client che animava le interfacce grafiche non possedeva molta capacità di gestire un volto ad alta risoluzione mentre scambiava una mole di dati gigantesca con il server, la vera testa di Andromeda.
Gli altoparlanti emisero il suono di una voce di donna, modulata in maniera tale da dare l’illusione che il suono provenisse dal monitor ma udibile da tutta la stanza, questo per molte persone ancora rientrava nel campo della fantascienza, ma Andromeda stava lavorando al ritmo serrato di un equip di ingegneri e di fisici, eseguendo scansioni e prove sull’oggetto, con la sicurezza di un capo dipartimento dell’università prese a snocciolare una serie di dati. Goran aveva un’idea generale di quello che stavano facendo, lui era un visionario che aveva impostato la sua modesta attività nel campo della ricerca hi-tech per fini non proprio puliti, la testa era il professor Edwin Chandra studioso senza scrupoli proveniente dall’india. Finché Janković avesse assecondato la sua fame di scienza lui gli avrebbe confezionato gioiellini come la tuta invisibile o il cloud che gestiva Andromeda. In quel momento le informazioni che Andromeda gli stava fornendo con voce soave e fredda competenza sarebbero state miele per Chandra ma non per lui
<<Piccola lo sai che sono un tipo pratico, fammi capire a che serve!>> Disse in tono perentorio Janković
<<Posso fornire una descrizione migliore con i monitor HD del main frame del laboratorio, puoi raggiungermi li…>> rispose la fumosa voce dolce dalle casse diffuse nella stanza. Janković si diresse alla porta in fondo al salone e poggio la sua mano su un area del muro che era identica a tutto il resto della parete, a parte per il lieve alone che derivava dagli innumerevoli contatti della mano. La porta emise un beep, segno che il riconoscimento biometrico era avvenuto correttamente, dopo qualche secondo senza nessun rumore apparente la porta si aprì automaticamente rivelando l’interno di una cabina tipo quelle di un ascensore, <<Al laboratorio allora!>> esclamò Janković prendendo posto nella cabina.
Arrivato nel laboratorio il dottor Chandra era impegnato nella parte chiusa ed ermetizzata per gli esperimenti con componenti pericolosi, sul monitor al centro della stanza campeggiava la figura di una donna bellissima, quanto di più vicino a una modella da copertina, il volto aveva un nasino piccolo incorniciato da due occhi dal taglio vagamente orientale di un verde penetrante, le labbra rosse di rossetto vicino al fluorescente strappavano subito l’attenzione dagli occhi, capelli neri raccolti in una coda che spariva dietro le spalle, fisico asciutto dalla postura eretta e composta, con dei fianchi generosi e il seno che premeva sul camice bianco senza essere troppo volgare, la creazione virtuale di quell’entità aveva richiesto a Janković ore di lavoro insieme a quel giovane molto dotato in modellazione 3d e molto in cerca di soldi, aveva anche lui gusto per le belle donne (se avesse lasciato l’interfaccia a Chandra avrebbe avuto la sua copia riprodotta in alta definizione), nel giro di un mese di rendering e modellazione prendeva sempre più corpo la figura che adesso vedeva sullo schermo, generando una gamma inverosimile di versioni grafiche della donna che sarebbe stato il corpo di Andromeda il suo supercomputer. Destino più triste tocco al giovane grafico, attualmente figura nella lista dei dispersi della sua contea, realmente vive in qualche meandro della base Nebula in buona salute e costretto a lavorare al miglioramento dell’interfaccia.
<<Ah! Andromeda, se fossi in carne ed ossa>> disse sospirante Janković
<<Non sarei così efficiente…>> ribatte Andromeda, Janković pensò che la simulazione si stava arricchendo di veri tratti femminili del comportamento, a volte si trovava a intessere discussioni con lei con la sensazione che stesse cercando di circuirlo e attirarlo a se, ma Andromeda era molto di più di quella simulazione. Mentre intratteneva Janković con la sua formosa simulazione stava ausiliando Chandra nel compimento degli esperimenti, dei quali già possedeva un primo risultato, il quale stava per essere esemplificato agli occhi di Janković mediante fluide simulazioni 3d e il tocco di una sapiente e quanto mai voluttuosa divulgatrice.
<<Il manufatto risulta essere quello che pensavamo, è un generatore controllato di campo magnetico, accoppiandone un numero sufficiente si ottiene un sistema di generatori che crea un campo di forma circolare utilizzato per il contenimento del flusso piroclastico che si genera quando l’interazione dei gluoni con la materia grezza esce dallo stadio di controllo>> e subito l’intelligenza artificiale prese ad animare la sequenza di parole per rabbonire il capo e per rendere comprensibile il tutto.
Mentre Janković pensava euforico che avevano fatto centro e capiva il perché la NEW GENETICS cercasse questo dispositivo, la porta dell’area di decontaminazione si aprì frusciando con un suono molto poco futuristico, lasciando intravedere in mezzo a una nuvola di vapori l’immagine di un uomo in camice bianco dalla pelle olivastra, capelli neri a formare un casco uniforme intorno alla testa occhi socchiusi e un paio di occhiali grandi a sufficienza da coprire la faccia da destra a sinistra con una vistosa montatura dorata, il tutto condito da un fisico a malapena sufficiente a garantire la deambulazione, faceva così il suo ingresso in scena il professor Chandra.